ADDIO A GIORGIO PISON

Ci ha lasciati a 90 anni uno dei decani del giornalismo regionale: Giorgio Pison. Iscritto all’elenco professionisti del nostro albo fin dal 1960, è stato per decenni una delle firme più importanti del Piccolo di Trieste, seguendo in particolare la cronaca politica. Nel triennio 1986-88 aveva anche ricoperto l’incarico di presidente dell’Assostampa FVG raccogliendo l’eredità di Danilo Soli. Il quotidiano triestino gli ha dedicato oggi un commosso ricordo di Paolo Rumiz (qui in calce). Anche l’Ordine dei giornalisti del FVG si unisce al cordoglio della famiglia.

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L’ULTIMO OMAGGIO A PISON
VERA “BIBLIOTECA DI STORIA” 
GIORNALISTA FINO ALL’ULTIMO

di Paolo Rumiz

Non so come faccia un uomo a restare se stesso fino all’ultimo. Giorgio Pison c’è riuscito. Ha chiuso la sua vita a novant’anni con lo stesso sguardo e la stessa ironia con la quale aveva gestito me, aspirante giornalista, al tempo del mio ingresso a Il Piccolo, alla fine degli anni Sessanta. Anche in ospedale è stato un piacere stargli accanto e ascoltare i suoi commenti sui fatti del mondo. Ti arricchiva di energia positiva. Tre giorni prima di morire, dopo i risultati elettorali in America, mi aveva parlato di una “trumpizzazione” dell’Occidente, dovuta alla distanza ormai abissale delle democrazie dalle cose del popolo.

Oggi che ha chiuso i conti con la vita, posso dire che devo in gran parte a lui quello che sono. È stato lui a mettermi sul binario giusto, a farmi lavorare sulla brevità e sulla tecnica dei tagli. 

Mentre scrivevo, mi arrivava alle spalle in redazione, felpato come un gatto, e ghignava sarcastico “A che tesi stai lavorando?”, alludendo alla mia tendenza a fare inchieste lunghissime, spesso a detrimento delle notizie. Era informatissimo, eppure guardava il mondo con distacco, occhi aperti a fessura con, sotto, vistose borse, e, sopra, una zazzera grigia che gli cadeva a caschetto fino a contatto con le sopracciglia.

Negli ultimi anni era facile incontrarlo verso sera nella bottega di antiquario di suo figlio Paolo (i due avevano la stessa voce, tanto che al telefono era facile confonderli) nella stradina del Ghetto dietro la Portizza. In mezzo alle vecchie cose di una Trieste che non c’è più, stava acciambellato su una sedia come un felino domestico accanto alla moglie Spera, piccola ebrea corfiota, scampata per pura fortuna alla retata compiuta in quelle stesse strade dalle SS nel 1943, lì nel semibuio a filtrare la vita, guardando i passanti come le ombre dalla caverna di Platone, e a sparare giudizi epigrammatici in triestino stretto, acuminati come freccette.

Che in quel sarcastico animale notturno (si alzava tardi e divorava libri fino alle ore piccole) si nascondessero delusione e persino malinconia l’ho scoperto molto tardi, quando – a 87 anni, in tempo di Covid – mi ha messo in mano il manoscritto di quello che sarebbe diventato un libro di poesia, dal titolo “Piazza Hortis”. Leggendo quei versi battuti ancora a macchina, ho scoperto un uomo apparentemente poco triestino, distante da un Cergoly o un Giotti, alieno al “viva là e po’ bon”. In Pison c’era un’anima angosciata per la deriva del mondo, eppure triestinissima nel dissimulare e ridere delle proprie complicazioni.

Dietro quel ghigno germinava senza che lo sapessi una profonda ironia: amarezza per gli alberi schiantati dal clima che dicono “no, non ci sarà primavera”, amarezza e rabbia per il dilagare di “cialtroni e ciarlatani”, per un tempo di “spingarde” e “pestilenze”, dove adulti vuoti e vecchi egoisti non lasciano più niente a figli e nipoti e vorrebbero che l’universo finisse con loro. Un disincanto reso ancora più doloroso dal fatto che agli sgoccioli della vita, nonostante tutto, “nel petto ogni anno mi entra aprile”, il mese più crudele secondo Thomas Eliot, e che nell’anima divampa ancora “uno struggimento di novelli sbocci”.

Negli ultimi anni aveva preso l’abitudine di passare la tarda mattinata in un caffè a leggere i giornali ma soprattutto a osservare il passaggio degli habitué; un caleidoscopio di vite di quartiere, con la donna super truccata, il professore col computer intento nella scrittura di un misterioso libro, la coppia giovane in fuga dal ricatto di genitori tirannici, l’introversa che ordina da bere rigorosamente senza parlare, o il signore col cane che va a sedersi senza salutare nessuno, che pare un cafone ma alla fine si scopre che è cieco. E Giorgio che su tutto prende appunti, pensando a un nuovo libro. Giornalista fino all’ultimo.

I figli Micol e Paolo l’hanno amato teneramente fino all’ultimo, e lui fino alla fine ha scherzato con loro. Ora si è chiusa con lui un’arca, una biblioteca piena di storie, una vita iniziata nel 1934, ricca di memorie di guerra, e proseguita nel 1958, poco dopo il ritorno di Trieste all’Italia, con l’ingresso nel giornalismo. Fu tra coloro che alla fine degli anni Sessanta diede vita su Il Piccolo, caso unico in Italia, alla “pagina dei giovani”. Quella che mi aprì la strada del mio mestiere.

Fonte: Il Piccolo, 13 novembre 2024

Foto: Il Piccolo